Secondo l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia il complesso vulcanico ha suddiviso in due porzioni il mar Tirreno
Sono solo 15 i km che separano la costa tirrenica calabrese da uno dei più grandi complessi vulcanici sottomarini italiani sviluppati lungo una faglia della crosta terrestre.
La scoperta è stata posta in essere dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia attraverso l’utilizzo di diverse tecniche geofisiche tra cui batimetria sonar multibeam, sismica a riflessione, anomalie magnetiche e tomografia sismica.
“L’evoluzione geologica del Mediterraneo occidentale durante l’era Cenozoica è stata controllata principalmente dalla dinamica della placca adriatico-ionica in scorrimento al di sotto della placca euro-asiatica. La segmentazione e fratturazione della litosfera oceanica sono processi che avvengono comunemente nei sistemi in subduzione e prevedono la formazione di porzioni di placche che si immergono nel mantello” ha spiegato Riccardo De Ritis, ricercatore dell’Ingv.
I dati del team, infatti, hanno indicato la presenza di numerose intrusioni magmatiche che hanno raggiunto il fondale marino in diverse posizioni che hanno formato monti marini e altre caratteristiche vulcaniche come camini e flussi di lava. Inoltre, è stato riscontrato che la nascita del complesso vulcanico-intrusivo sia avvenuta grazie alla fusione di materiale proveniente dal mantello lungo. In particolare, da una profonda frattura della crosta terrestre che ha suddiviso in due porzioni il mar Tirreno: una parte occidentale, i cui edifici vulcanici presentano una morfologia accidentata e deformata dalla presenza di diverse fratture; una parte orientale, che presenta invece edifici vulcanici arrotondati dalla sommità pianeggiante che nel tempo ha generato cicli di erosione e sedimentazione.
Inoltre, è emersa un’ampia area con numerosi corpi magmatici solidificati a diverse profondità che risalgono fino al fondale marino formando edifici vulcanici nominati Diamante, Enotrio e Ovidio.
I risultati della ricerca hanno fatto luce sui processi magmatici che ad oggi si verificano lungo i bordi delle lastre di subduzione, nonché sul potenziale rischio geografico in una regione densamente popolata la cui attività vulcanica era precedentemente ritenuta una delle meglio caratterizzate al mondo.